Personalità difficile e artista indiscusso. Questa la sintesi della parabola esistenziale che ha chiuso il cerchio intorno a Flavio Bucci. In un freddo mattino d’inverno; nel muto silenzio di Passoscuro, sul litorale romano; nella solitudine di casa sua, come deserto immenso.
Attore dai mille volti: per il cinema, per il teatro, per la televisione. Uomo sospinto dai venti di facili paradisi, al richiamo dei quali non ha voluto o saputo opporre resistenza.
Vizi e virtù, nel calice che ha alimentato la sua intensa esistenza e che ha svuotato fino in fondo. Complice di se stesso.
“ Non mi pento di niente. Ho amato, riso, vissuto: vi pare poco?”, soleva ripetere. Nonostante la sua condizione di semipovertà, nella quale le sregolatezze umane lo abbiano piano fatto scivolare. Devastato nel fisico, ironico e disincantato nello spirito, illuminato sul set e sul palcoscenico . Ha indossato i panni di “Ligabue”; ha scherzato in “Il marchese del Grillo”; ha interpretato appieno le logiche della politica in “Il Divo”: attore mai stretto in canoni che non gli appartenevano; sempre libero da convenzioni, che considerava sovrastrutture inutili. Nel teatro, il suo filone privilegiato è la letteratura classica: ha messo in scena “Cuore di cane”, di Bulgakov; “Mercante a Venezia””, di Shakespeare; “Diario di un pazzo”, di Gogol.
Sempre fiero di questo ultimo lavoro, da lui stesso adattato, quale “via di fuga da un raziocinio benpensante e da una stringente burocrazia”. O forse perché riconducibile a se stesso, alla sua essenza, alla sua filosofia.
“Non voglio assolvermi da solo”, dileggiava, confessando le sue trasgressioni. E, nel contempo, portava sulla scena, pensando Leopardi, “Che fai tu luna in ciel , dimmi che fai?”. Momenti di verità o di follia? La risposta è contenuta nelle sue stesse parole: “Mi piacerebbe credere che la vita non è solo godimento”.
A noi piace credere che per Flavio Bucci siano state parole di profonda verità.