Il popolo arbëreshë mi ha sempre appassionata, sin da quando i miei studi universitari di antropologia mi hanno avvicinata alla loro cultura e tradizione. Ricordo che, qualche sera prima del mio esame universitario di antropologia, un gruppo di artisti arbëreshë è venuto ospite a Bova Marina, dove si è esibito sul palco del Cineteatro don Bosco in balli e canti tradizionali, raccontando così la storia di un popolo.
La donna arbëreshë, nel giorno dell’addio, viene vestita con l’abito della festa nuziale, detto stolite, dai colori festosi, sul fucsia o rosso e cucito da più gonne sovrapposte: la sottana, la sutanini, sulla quale è cucita la gonna in raso, detta kamizolla e ricamata con fili d’oro, un’altra gonna azzurra o blu plissettata, detta coha, dal bordo rialzato per mostrare la kamizolla. Il corpetto azzurro è decorato da disegni in oro, accompagnato da uno scialle in raso ricamato; la camicia bianca, la linja, caratterizzata da ampia scollatura ed impreziosita da merletti, accompagnata da un panno di tulle e lino, chiamato petini. Attorno al collo, la sposa porta una cravatta di raso, detta skola, ricamata da temi in oro. Il tutto è impreziosito dai gioielli in oro: spille che fermano ai lati delle camicie lunghe catene, le cosiddette llashi, anelli e bracciali, indossati anch’essi nel giorno della morte, forse la più grande festa, giorno di dolore e di rinascita a vita nuova. Come il matrimonio, inizio di una nuova vita e momento di fecondazione e nascita, la morte è un momento di rinascita. Il vestito della festa è indossato, oltre che per le nozze, anche per le feste religiose, quali Domenica di Pasqua e il Natale ed anche per i tre giorni di lutto stretto che colpisce la famiglia.
Con l’abito nuziale arbëreshë entriamo nel pieno significato del bello, nel singolare gusto che identifica un popolo e nella sua viva tradizione, la quale si contrappone tra il sacro ed il profano, tra i vari ceti sociali e le varie epoche generazionali. La bellezza naturale, in questo caso della donna, è messa in risalto da ciò che indossa, portando con dignità ed eleganza la responsabilità sociale della cultura e tradizione della sua gente. Sono le donne che preparano i cadaveri alla nuova vita, come sono sempre le donne a far nascere una nuova vita e presentarla al mondo. Il ruolo di mediare tra i vivi e i morti era ricoperto dalla donna, alla quale toccava il pietoso compito di chiudere gli occhi al defunto: alla madre, se ancora in vita, spettava chiudere gli occhi del figlio; se si trattava della figlia, spettava alla madre o alla figlia della defunta. La madre, se ancora in vita, non seguiva mai il corteo funebre del primo figlio morto, in quanto sarebbe stato da augurio nefasto per i figli in vita.