Fausta Rigoli, medico , donna determinata e coraggiosa, e suo figlio Rocco Lupini, di nove anni, furono rapiti il 18 maggio del 1983. Fausta fu liberata il 22 novembre dello stesso anno e il figlio il 1° gennaio del 1984. Rocco, grazie al suo carattere e al suo forte temperamento, riuscì ad andare avanti e a vestire quell’uniforme che tanto desiderava, restando nella sua Calabria a lottare per il bene della sua terra
La dottoressa Fausta Maria Rigoli, medico condotto di Molochio, altruista e professionale, moglie e mamma, ci ha lasciati per compiere la sua ultima missione. Visse in un periodo storico emergenziale, quando la ’ndrangheta era più forte che mai e la sua forza intimidatoria era tanto diffusa da consentire di compiere crimini efferati e infamanti come i sequestri di persona a scopo d’estorsione. Fausta era il medico condotto di Molochio, un paesino nel cuore dell’Aspromonte. Fausta accudiva amorevolmente chiunque ne avesse bisogno, senza distinzione alcuna, e con il marito Giuseppe aveva creato una fiorente azienda agricola, una delle più efficienti e produttive del territorio. I primi a importate e coltivare i kiwi in Calabria. Anni prima, la ’ndrangheta aveva colpito duramente le loro famiglie con il rapimento del possidente Francesco Vocisano e del giovane Francescantonio Falletti, e finanche con l’uccisione di un congiunto e del suo autista che si erano opposti a un tentativo di sequestro di persona. Fausta credeva che il suo mondo e quello degli onesti abitanti di Molochio non potesse confondersi con quello degli ‘ndranghetesti. Un giorno rimase impressionata dal comportamento di due bambini, venuti in ambulatorio a richiedere la prescrizione di alcune medicine per la madre che aveva partorito da pochi giorni. Erano i figli di un mafioso e portavano il segno di quell’appartenenza nell’incedere sicuro e nel sinistro luccichio degli occhi. Mentre compilava la prescrizione Fausta chiese loro se la madre avesse partorito un maschio o una femmina, alzò quindi lo sguardo per partecipare alla risposta gioiosa dei bambini ma incontrò due sguardi gelidi e insofferenti, rimanendo profondamente colpita dalla concisa risposta che ne era seguita: “no sacciu!”. Il sorriso di Fausta si spense e una profonda amarezza la pervase. Durò un attimo quel senso di sgomento e una tenera immagine del figlio le era apparsa nella mente di quando il suo piccolo Rocco era vestito a festa nel giorno di carnevale con una divisa da carabiniere in un portamento fiero che tradiva una istintiva passione per la giustizia. Era certa che Rocco sarebbe diventato un uomo forte e coraggioso. La mattina di una giornata di maggio, Rocco, impaziente di andare a scuola, uscì in strada prima della madre e la precedette di alcuni metri. Senza avere il tempo di realizzare cosa stesse accadendo, Fausta fu bloccata da alcuni uomini mentre altri sconosciuti presero Rocco. In quel momento comprese che stavano portando via il suo bambino. Non poteva permetterlo, ma intuì che sarebbe stato inevitabile, e anche le poche persone presenti non ebbero il tempo o il coraggio di reagire. Non avevano scampo. In quei pochi secondi, Fausta decise di tentare l’unica mossa possibile. Con tutta la forza che aveva in corpo e che non credeva neanche di possedere, sfuggì alla presa degli aggressori e si lanciò verso l’autovettura dove fu caricato il piccolo Rocco, gettandosi disperatamente dentro l’abitacolo. Quella mossa inaspettata spiazzò i sequestratori, travolti dagli eventi senza così potere porvi rimedio.
La macchina partì a forte velocità mentre Rocco si perdeva rasserenato tra le braccia di Fausta, per lui non c’era più pericolo, la madre non avrebbe permesso a nessuno di fargli del male. Ne era sicuro e si abbandonò docilmente sul sedile. Vagarono in auto per ore e poi, bendati, camminarono a lungo. Passarono i giorni senza fermarsi, se non per la notte, e Fausta percepì che la sua presenza era ingombrante e che i sequestratori non riuscivano ad individuare una prigione adatta per custodire due persone. Era confusa e l’unica preghiera che riusciva a formulare non era tanto quella di ritrovare la libertà insieme a Rocco, che sapeva irrealizzabile in quel momento, ma quella di non essere costretta a lasciare suo figlio. Insieme sarebbero riusciti a venirne fuori, ma Rocco, da solo, come avrebbe potuto resistere. Aveva solo nove anni. Sapeva del triste destino dei bambini sequestrati, era a conoscenza che molti di loro non riuscirono più a riprendersi né a reagire alla terribile esperienza vissuta. Non poteva permetterlo e si aggrappò con tutte le sue forze alla speranza di restare con Rocco, fosse stato anche l’inferno, lei lo avrebbe reso, ai suoi occhi di bambino, un luogo fantastico e colorato. Pioveva da giorni e Rocco, seppure spesso venisse trasportato in braccio dai sequestratori, era sfinito e tormentato da una forte febbre che non accennava a diminuire. Durante l’ennesima discussione sul da farsi, Fausta, nel buio della benda che le copriva costantemente gli occhi, sentì una voce nuova, mai udita prima, che pose fine alla questione proferendo una frase ferma e decisa come una sentenza inappellabile: “Adesso vi tenete anche la madre, il bambino sta male e ha bisogno di cure”. Le sembrò di avvertire, nel tono del misterioso personaggio, una nota di umanità e questo le riempì il cuore di speranza e, rinfrancata da quella concessione, si prese cura di Rocco. Trascorsero le giornate parlando e inventando fiabe sempre nuove e leggendo qualche libricino per bambini fornito dai carcerieri. Fausta, in uno dei rifugi utilizzati per la prigionia, aveva trovato un libro della collana “Harmony” che leggeva quando Rocco riposava e, proprio in quei momenti, i rapitori la interrogavano sulle possibilità economiche della sua famiglia e le dettavano lettere di richiesta per il riscatto sostenendo di proposito, fingendosi rammaricati, che suo marito non era intenzionato a pagare per riavere i suoi cari. I giorni passavano, i racconti si moltiplicavano, i custodi che si avvicendavano acquisivano forme umane mediante l’attribuzione di un nome. Il più buono era “Massaru Peppe” che portava da mangiare e il più terribile era “Il Capo”, scortese, autoritario e che spesso ricorreva alle minacce. Le prigioni erano costituite da rifugi di fortuna ricavati nel terreno che, durante le incessanti piogge, che affliggevano la zona in quel periodo, si allagavano facendo temere per il peggio e che, quando non pioveva, erano infestati da insetti e topi. Erano costretti a dormire sulle pietre e Fausta stringeva il suo bambino tra le braccia per scaldarlo e farlo stare il più comodo possibile. La sua posizione era sempre la stessa e Rocco dormiva tra il suo corpo e il muro, mentre uno dei sequestratori vegliava a poca distanza. Fausta non riusciva a prendere sonno perché le ossa e i muscoli le dolevano, ma resisteva senza muoversi e senza un lamento. Una sofferenza che le segnò il corpo e l’anima per la vita. In quei momenti non si curava di se stessa, proiettata com’era a salvaguardare l’acerbo e delicato animo di Rocco e il suo fragile corpicino dalle ferite che quella prigionia avrebbe inflitto a entrambi. Alle volte vacillava e si sentiva confusa: possibile che suo marito non volesse pagare per liberarli? E se fosse vero? E se Rocco non avesse resistito? Allora, tentava di convincere i sequestratori a liberarli, contrattando la misura del pagamento e rassicurandoli che qualcuno avrebbe certamente pagato. Ma quando Rocco sentiva certi discorsi, rimproverava duramente la madre che non avrebbe dovuto parlare con quelle persone cattive che non meritavano considerazione. Fausta si nutriva del coraggio del suo bambino e ritornava a sperare. Un giorno, addirittura, in risposta a uno dei sequestratori che aveva detto: “Siamo dei disgraziati. Meritiamo la pena di morte”, Rocco reagì con risolutezza: “No, non basterebbe, dovete pagare per il male che avete fatto”. Era diventato un piccolo uomo. Verso la fine di novembre il gruppo si mosse e Fausta, bendata, fu fatta salire su un’autovettura. Tastò attorno a sé alla ricerca di Rocco, ma intuì immediatamente che il bambino non c’era. Cominciò ad agitarsi, scongiurando quegli uomini di non separarla dal figlio, ma uno di loro le rispose calmo: “Terremo noi tuo figlio, stai tranquilla ne avremo cura, tu vai a casa a trovare tutti i soldi che puoi. Adesso vai, ti lasceremo vicino a una casa, dovrai chiamare prima i carabinieri e poi tuo marito”. La lasciarono vicino a una villa e Fausta suonò meccanicamente il campanello mentre nella mente i pensieri si accavallavano. Cosa avrebbe dovuto fare per riabbracciare Rocco? Lo avrebbe più rivisto? E il denaro, dove trovarne a sufficienza? Nel momento stesso in cui si aprì la porta non ebbe più alcun dubbio, avrebbe fatto qualsiasi cosa per riportare il suo bambino a casa. Fausta fu accolta dalla famiglia Monteleone e chiese di poter chiamare i suoi cari. Telefonò prima ai carabinieri e poi al marito, così come le avevano detto di fare. Trascorsero le ore, i giorni e Fausta temeva per la sorte del figlio. La consolava il calore della gente e l’impegno costante dei carabinieri che continuavano imperterriti a cercare il piccolo Rocco tra i crinali dell’Aspromonte, nonché la presenza rassicurante dei brigadieri Gaetano Vaccari e Andrea Mantineo. Anche la Chiesa fu vicina alla sua famiglia, il Papa aveva più volte formulato appelli per la liberazione di Rocco. Un congiunto del marito riuscì ad avere un colloquio con un importante uomo politico che aveva rilevanti responsabilità di governo ma, alla sua richiesta di aiuto, rispose: “Sbrigatevela tra voi mafiosi”. Era lo stesso personaggio che, anni dopo, si recò trionfalmente in Calabria per proclamare, in nome dello Stato che rappresentava, il successo ottenuto con la liberazione di Alessandra Sgarella. Furono orfani i sequestrati calabresi? Meritavano che lo Stato si occupasse della loro sorte, come avveniva per i sequestrati del nord Italia. La Calabria non poteva essere terra di nessuno, un’immensa e inaccessibile prigione, un covo di mafiosi nel quale non era possibile distinguere la gente onesta, destinata a soccombere, come se fosse stata a contatto di un contagioso virus letale e lasciata a morire in quarantena. Il Natale era alle porte mentre Fausta era intenta a raccogliere quanto più denaro era possibile; la sua casa era un viavai di parenti e amici disposti a prestare denaro alla sua famiglia. Anche le persone più povere si presentarono con quel poco che disponevano. Tutti gli abitanti di Molochio promossero una raccolta di denaro per la liberazione del piccolo Rocco. Quando Fausta e il marito Giuseppe racimolarono il denaro necessario per pagare il riscatto, si presentarono i carabinieri e lo sequestrarono. Si sentirono mancare il terreno sotto i piedi, ma furono rasserenati dal capitano Cosimo Fazio e dai P.M. Salvatore Boemi e Giuseppe Carbone. I carabinieri avrebbero restituito le stesse banconote da cinquanta e da centomila lire non appena avessero “segnato” il denaro per permetterne la successiva individuazione. Così la sera dell’Immacolata, mentre il paese era in veglia di preghiera per il piccolo Rocco, Fausta e il marito andarono a pagare il riscatto portando nel cuore la speranza che tutte quelle suppliche potessero essere accolte da Dio. Passarono i giorni e in casa della nonna materna fu portato un abete, qualcuno disse: “Portatelo via, in questa casa il Natale non si festeggia”, ma l’anziana donna sostenne serenamente: “Lasciatelo pure. Quando torna il piccolo rocco lo adopereremo per lui”. Anche Fausta quella notte sognò un piccolo presepe. Appena sveglia ne ricordò ogni particolare, ogni piccola casa, gli alberelli, la capanna, ma non vi era alcun pastorello. Aveva chiesto in sogno dove fossero le statuette e una voce lontana aveva risposto che le avrebbe messe Rocco una volta tornato a casa. nelle successive telefonate i rapitori chiesero altro denaro, ma Fausta si oppose con decisione: “Ho fatto ciò che volevate, adesso ridatemi mio figlio sano e salvo come promesso”. Il primo gennaio dell’anno 1984, qualcuno suonò al campanello della villa del veterinario Monteleone, la stessa dove Fausta, sfinita e vestita di stracci logori, fu accolta quaranta giorni prima, ma nessuno rispose. I proprietari in quel momento erano sulla via del ritorno e, giunti vicino alla villa, scorsero sulla strada un bambino che avanzava claudicante, con un faccino tanto coraggioso quanto spaventato. Gli andarono incontro, lo presero in braccio e, stringendolo commossi, lo misero in macchina; avevano ritrovato il piccolo Rocco. Il bambino, sfinito e frastornato, fraintese quell’impeto di gioia e credette di essere stato nuovamente rapito. Fausta era immersa nei suoi pensieri quando squillò il telefono, rispose subito pensando a una comunicazione dei rapitori e restò delusa quando capì che era il veterinario. Dall’altro capo del telefono si sentì dire: “Fausta, una sorpresa, abbiamo tuo figlio qui con noi”. Fausta e il marito corsero a prendere Rocco e lo trovarono smarrito e confuso, indossava una tutina e delle scarpe acquistate da poco, che lanciavano un messaggio inequivocabile: “Anche noi abbiamo mantenuto la promessa e abbiamo trattato bene il bambino”. Rocco, poteva essere essere stato custodito in una qualche casa in quanto ricordava di sentire passare le automobili e suonare le campane di una chiesa. Il bambino fu trattato bene e questo per Fausta restava la cosa più importante. Di ritorno, vennero travolti da una fitta folla. La notizia della liberazione si sparse rapidamente e, al suono delle campane a festa, tutto il paese andò incontro al piccolo Rocco. Nei giorni seguenti arrivarono centinaia di regali e la stanza di Rocco fu piena di giocattoli. Fausta disse al suo piccolo: “Hai visto quanti bei regali?”, ma il bimbo rispose tristemente: “Mamma sono bellissimi, ma quanto sono costati? Troppo!”. Così Fausta, che aveva regalato tutti quei giocattoli ai bambini meno abbienti, comprese che Rocco voleva dimenticare, il tributo pagato durante la prigionia fu per suo figlio un prezzo troppo alto: cedere i suoi sogni, le sue speranze, la sua spensieratezza. I giocattoli non gli servivano, non era più un bambino. Rocco rifiutava ogni parola con la terribile esperienza vissuta e, come per rispettare un silenzioso accordo, i genitori, i parenti, gli insegnanti e la gente del posto non gli chiesero mai nulla del rapimento, sollevandolo dallo strazio del ricordare. Tuttavia, nel suo animo ancora acerbo rimasero intatte le sue più ferme convinzioni, tra cui la netta distinzione tra i buoni e i cattivi. Gli uomini che lo avevano rapito erano malvagi e non meritavano il perdono ma una pena adeguata al male compiuto. Scelse di restare nella loro terra e ripartire da zero. Fausta, donna determinata e coraggiosa, lo aveva protetto nel momento peggiore della sua vita. Aveva ripreso a curare la gente di Molochio con la stessa dedizione. Giuseppe Lupini, durante il sequestro, percorse ogni piccolo sentiero possibile per ritrovarlo, per riportarlo a casa, raccolse e pagò tanto denaro, forse più di quanto ne possedesse e alla sua insistente domanda: “Papà, siamo diventati poveri per colpa mia?”, rispondeva, con tono calmo e rassicurante, che loro erano persone speciali, abituate a lavorare e vincere ogni avversità, a costruire con onestà un futuro migliore, giorno per giorno, passo dopo passo, animate dalla forza propria dei calabresi che li spingeva a guardare sempre avanti. Rocco rimase nella Calabria dei suoi genitori dove c’era il suo mondo e quella sete di giustizia che sempre custodì dentro di sé poteva placarsi solo nella sua terra. Divenne un fedele servitore dello Stato, vestendo l’uniforme che da piccolo indossava per gioco, quella di Ufficiale dei Carabinieri. Fausta reclamò il riconoscimento di tutti i sequestrati lo status di “vittime della mafia”. Rocco e la madre parteciparono a numerose perlustrazioni in Aspromonte alla ricerca dei covi-prigione, fornirono elementi utili che dimostrarono, tra l’altro, come in una delle prigioni da loro localizzate erano stati custoditi Piera Bombelli e Pietro Castagno. Vi furono anche arrestati, ma le indagini conclusive approdarono a nulla. Né le banconote destinate al pagamento del riscatto, preliminarmente sequestrate perché la Banca d’Italia prendesse nota del loro numero di serie per poterle poi rintracciare, offrirono elementi utili. I proventi del riscatto furono incamerati e regolarmente utilizzati senza che il sistema bancario segnalasse alcun movimento o anomalia. Insomma, quel denaro, segnalato banconota per banconota, era scomparso nel nulla. Ciò non sorprese nessuno, quella delle banche era ormai una storia vecchia e ben conosciuta. Ebbene, tale insuccesso della giustizia fu la beffa che si aggiungeva al danno. Fausta Rigoli e suo figlio Rocco Lupini furono rapiti il 18 maggio del 1983. Fausta fu liberata il 22 novembre dello stesso anno e il figlio il 1° gennaio del 1984. Rocco, grazie al suo carattere e al suo forte temperamento, riuscì ad andare avanti e a vestire quell’uniforme che tanto desiderava, restando nella sua Calabria a lottare per il bene della sua terra. Fausta continuò a svolgere la professione di medico condotto del paese e scelse di testimoniare quella terribile esperienza evidenziando le lunghe e faticose battaglie, sostenute insieme al figlio, perché lo Stato riconoscesse ai sequestrati lo status di “vittime della mafia”. Una speranza inascoltata.
Adesso, con cuore grato, rendiamo gli onori a Fausta Maria Rigoli che, segnata dalla violenza mafiosa, si è addormentata in serenità. Il suo sorriso e le sue parole li custodiremo per sempre. Anche La nostra comunità d’Arma esprime cordoglio alla famiglia, al marito Giuseppe Lupini e al figlio Rocco Lupini – T Colonnello dei Carabinieri F -, supportati dalla fede e uniti nella preghiera. Un ideale abbraccio dottoressa, riferimento certo, che ci ha preceduto andando avanti nei Cieli blu.
Capitano Cosimo Sframeli
Presidente Ass. “Nastro Verde” Calabria