L’occasione della riapertura dei ristoranti mi dà la possibilità di parlare del cibo ma non nei soliti termini che conosciamo di ingestione di sostanze commestibili; quanto rapporto individuo-società. Infatti, i modi in cui ci nutriamo sono in grado di dirci alcune cose importanti. Non solo su come viviamo, ma anche sulla struttura della società, e sulle regole che permettono la sua persistenza nel tempo. Inoltre, il modo in cui interagiamo con il cibo ci mostra i nostri requisiti personali e relazionali. In questo senso, il mangiare partecipa sia alla natura sia alla cultura. Il cibo non viene semplicemente ingerito. Prima di entrare nella bocca è pensato, selezionato e progettato. La possibilità che il cibo, pronto ad essere ingoiato, sia potenzialmente pericoloso per il nostro organismo è sempre presente. Ed è all’atto della sua preparazione che si affida sia il compito di difenderci da questo rischio, attraverso tecniche culinarie sempre più raffinate, sia il modo di esorcizzarlo simbolicamente. È la preparazione del cibo che segna il passaggio dalla natura alla cultura. E le adozioni di specifici strumenti per cuocere e per mangiare, delle cerimonie e dei riti durante i quali uomini e donne si raccolgono attorno alla propria mensa, rappresentano le prerogative di ogni società. Un altro aspetto, intrinsecamente collegato all’eventuale nocività del mangiare, è l’atto di fiducia che compiamo verso coloro che si prestano a nutrirci, a partire dai nostri primi vagiti. È una fiducia essenziale per la nostra sopravvivenza, ma non assoluta, e sarà, infatti, di volta in volta rinnovata, oppure messa in discussione, determinando la qualità della relazione con i nostri caregivers. Il disturbo alimentare esprime la difficoltà del soggetto a regolare il rapporto fra appartenenza e differenziazione, fra dipendenza e autonomia. Problemi come l’anoressia o la bulimia indicano la difficoltà del soggetto che si nutre a stabilire un equilibrio con le proprie emozioni rispetto alle richieste che giungono dall’ambiente esterno. Se mangio troppo (caso della bulimia) è per compensare delle carenze affettive; invece se non mi nutro (anoressia) esercito una forma di ribellione a dei rapporti che non mi permettono di esprimere me stesso/a. Ecco che la relazione genitoriale assume un ruolo decisivo nei confronti dei figli perché da una parte esige l’amore filiale più intenso, e dall’altra questo stesso amore deve aiutare il figlio a distaccarsi dalla madre, a crescere e a diventare completamente autonomo e indipendente. È facile, per una madre, amare il figlio prima che questo processo di separazione abbia inizio. Difficile, invece, è amare il bambino e nello stesso tempo desiderare di lasciarlo andare, libero di gestire la propria vita. Credo che tale considerazione valga per tutte le relazioni finalizzate ad evolvere secondo i principi di reciprocità e rispetto, piuttosto che di controllo e sottomissione.