Forse la vita lo aveva tradito; forse la società non aveva saputo dare risposta di umanità al suo urlo di disperazione; forse, come osserva Fichte sul suicidio, aveva esaurito “il coraggio di sopportare una vita divenuta insopportabile”. E lui, senza più voce e senza più occhi di speranza, aveva deciso di recidere il filo che lo teneva legato alla vita. Che, forse, amava ma che non era riuscito a possederla tutta o a riconciliarsi con essa.
E’ stato visto da un militare dell’Arma dei Carabinieri, l’uomo, residente a Pontepiccolo, uno dei ventidue quartieri di Catanzaro, nell’atto estremo di togliersi la vita. E’ stato trovato così, sospeso sul baratro del nulla, gambe penzoloni, già superata la barriera del ponte sulla Fiumarella. Il maledetto Ponte Morandi, primo per altezza alla sua costruzione; opera di ingegneria, nel1962, dal primato mondiale. Ora detentore del primato di morte. E’ stato salvato in extremis dal Carabiniere, di casuale passaggio, e lo ha riconsegnato alla vita.
Ancora è scenario di disperazione e di morte il ponte Morandi. Ancora , dopo i numerosi suicidi registrati, un altro tentato suicidio è alla cronaca di queste ore. Più volte sono state invocate recinzioni laterali più alte, più sicure, atte a scongiurare gesti estremi. Appelli non recepiti, inevasi, lasciati ai venti di assurda burocrazia o della politica di turno.
Ma le riflessioni non bastano. Non sono sufficienti a stigmatizzare latitanze e responsabilità. Ad alleggerire pesi insopportabili, dispiegando teorie di scelte di difficile lettura.
Sottrarsi alla vita è un atto contrario alla legge di natura e all’ordine delle cose. Anche se, afferma Plotino, “quando si fa violenza al corpo per distaccarlo dall’anima non è il corpo che lascia l’anima, ma la passione a decidere, cioè la noia, il dolore o la collera”.
La posta in gioco è la vita. La posta in gioco più alta.