Presenziando alle notizie sulla guerra appare chiaro come la Russia venga considerata il nemico pubblico numero uno. Intanto la guerra è da condannare perché mi chiedo cosa ci abbiano insegnato millenni di pensiero filosofico se commettiamo lo stesso errore di schierarci con una o l’altra parte senza aver compreso quel linguaggio universale che accomuna tutti e che non richiede spiegazioni: l’amore. Ed è proprio sul linguaggio, sui significati che esso produce che si è determinato un pregiudizio storico nei confronti della Russia, che di seguito ripercorro.
È almeno dall’Ottocento che l’Occidente ha un pregiudizio nei confronti della Russia. Se risaliamo alla Guerra di Crimea, del 1853, la situazione internazionale era questa: la Russia aveva bisogno di una Turchia docile per la sicurezza dei suoi confini meridionali, costantemente insidiati dalle bellicose popolazioni islamiche; Napoleone III di Francia aveva bisogno di un successo per consolidare la sua posizione interna; e l’Inghilterra aveva bisogno di una Turchia ostile ai russi per garantirsi il controllo del Mediterraneo orientale e delle sue colonie in Asia. Col pretesto di una contesa sui protettorati cristiani in Terra Santa, in territorio ottomano, la Francia ottenne l’alleanza della Turchia. La Gran Bretagna, che voleva eliminare la concorrenza russa nel Mediterraneo, si alleò con la Francia e nel giugno 1853 la flotta inglese e quella francese si unirono al largo dei Dardanelli. A questo punto, la Turchia, spalleggiata dalle due potenze occidentali, dichiarò guerra alla Russia. Francia e Inghilterra, alleati della Turchia, chiesero e ottennero il contributo militare sia dell’Austria che del Regno di Sardegna (che accettò di entrare in guerra con quindicimila uomini per ottenere favori dall’Austria). Il fronte degli “alleati” fu imponente e la Russia, nel 1856, si dichiarò sconfitta. La Turchia ottenne a quel punto l’unità territoriale e divenne una nazione potente. La frattura in seno ai paesi europei ebbe rapide ripercussioni: cinquant’anni dopo la guerra di Crimea, la Turchia poté consolidare il suo sogno nazionalista grazie ad una spietata pulizia etnica a danno delle minoranze cristiane.
Il problema dei “protettorati cristiani” venne “risolto” alla radice, con la cancellazione dei popoli eterogenei. Nel 1909 i Giovani Turchi presero il potere e avviarono il genocidio del popolo armeno, un popolo cristiano di cultura europea. Fra il 1909 e 1915 fu pianificato e realizzato lo sterminio di due milioni di armeni. L’olocausto armeno fu il primo annientamento totale di un popolo nel corso del Novecento, la prova generale dell’olocausto ebraico che avvenne venticinque anni dopo. Ancora oggi il governo turco, integralista e nazionalista, nega che quel genocidio sia mai avvenuto. Di recente gli USA, ancora una volta per adoperare la Turchia in funzione anti-russa, le hanno dato carta bianca nel genocidio in atto nei confronti della minoranza curda. Indifferente al sacrificio di 25 milioni di cittadini russi morti per contrastare l’avanzata tedesca durante la seconda guerra mondiale e per espugnare Berlino, gli Usa (che di morti ne ebbero 400.000) decisero che la Russia sarebbe stata il loro nemico pubblico numero uno.
La guerra dell’Afghanistan, nel 1979-89, è ormai analizzata da tutti gli storici come un atto della Guerra fredda USA/URSS. Le popolazioni islamiste radicali afgane vennero fomentate e adoperate in funzione anti-russa: all’epoca i mujaheddin afgani furono armati e addestrati da americani, inglesi, sauditi, pakistani, iraniani e persino cinesi.
Tutto ciò, a distanza di quasi trent’anni, dovrebbe essere storia passata; purtroppo non è così. Perché la strategia di generare una guerra in funzione anti-russa si è oggi ripetuta in Siria. Il governo americano, per il quale l’ossessione di sgretolare la Russia continua ad essere il motore segreto dell’azione politico-militare internazionale, ha armato e fomentato i gruppi jihadisti di Al Qaeda e di Daesh (l’ISIS) in tutti i territori confinanti con la Russia. Questi movimenti, però, alimentati dalle immense risorse di denaro dell’Arabia Saudita, si sono espansi a macchia d’olio fino a destabilizzare non solo l’area del Medio Oriente, ma anche l’intera immensa superficie dell’Africa del Nord, oggetto di una islamizzazione forzata e violenta.
Oggi, la miopia politica europea e il suo sostanziale asservimento agli USA hanno fatto sì che l’Europa non solo si sia sobbarcata l’onere economico della crisi finanziaria prodotta delle banche americane, ma si ritrovi circondata in tutta la sua estensione da stati islamici fondamentalisti, come la Libia, la Turchia, l’Iraq e la Siria (ormai in mano a Daesh), o comunque da movimenti terroristici che allignano all’interno di tutti gli stati islamici, anche quelli moderati come l’Egitto, l’Algeria, il Marocco. A tutto ciò si è aggiunta negli ultimi anni un’ulteriore, grave conseguenza: i movimenti islamisti radicali hanno preso piede negli stessi territori nazionali europei, abitati da percentuali elevate di islamici poco o punto integrati.
La visione di questo stato di cose è drammatica, eppure non è ancora irreparabile. Sarebbe sufficiente che l’opinione pubblica europea comprendesse la necessità di una pacificazione fra Europa e Russia e le cose prenderebbero di colpo tutt’altra direzione. Lo scambio commerciale fra le due grandi compagini continentali produrrebbe una vera e propria ondata di ricchezza, perché la Russia è vicina all’Europa e piena di materie prime e l’Europa dispone della tecnologia indispensabile al salto industriale che la Russia desidera da decenni. Inoltre, la Russia dispone della strategia politica e militare necessaria alla stabilizzazione del Medio Oriente, la cui riaggregazione sotto le bandiere di Daesh tanti problemi sta generando in Europa.
«La Russia non è per noi un nemico», «ma un amico; appartiene alla cultura europea, è un partner economico ideale, combatte l’integralismo islamico». È evidente che questo diverso allineamento internazionale creerebbe qualche malumore negli Usa. Ma anche questo ostacolo potrebbe essere superato. Se l’opinione pubblica americana fosse informata che la Russia non è più il pericolo pubblico numero uno, non potrebbe non concordare sul fatto che la pacificazione USA/Russia darebbe luogo a un ordine mondiale equilibrato e duraturo.
Allargando ancora la visione, affaccio l’idea prospettica che la Russia un giorno potrebbe far parte della stessa Unione Europea, per identità di cultura e per interessi geostrategici globali. Utopia? Forse. E tuttavia senza la potenza dinamica di nuove e grandi utopie gli esseri umani sarebbero condannati all’inerzia: la visione di una grande nazione euroasiatica potrebbe rivelarsi di un fascino straordinario per tutti i popoli coinvolti, tale da mobilitare straordinarie energie culturali, politiche e sociali.
Diventata colonia anglosassone, oggi l’Europa è un’accozzaglia litigiosa di paesi in difficoltà economica, senza un vero e proprio confine, senza una propria lingua, senza governo, senza una politica economica, senza un proprio esercito e senza una politica estera.
Oggi la politica estera degli Stati europei è totalmente dipendente, totalmente succube, totalmente guidata dalla coalizione USA-Inghilterra. […] E questa dipendenza, questa acefalia paralizza il pensiero, perché la gente pensa solo se può avere un obiettivo, un progetto, una meta. Pensa solo se, una volta presa una decisione, può realizzarla, e smette di pensare quando sono sempre gli altri che decidono per lei, e di solito per il peggio. Pensa solo se ha un nemico che ritiene di poter affrontare e vincere.