A quasi un mese dalla scomparsa del dottor Santo Aquilino, intellettuale fossatese, Domenico Principato affida il suo ricordo alle nostre pagine ed alla mia penna, raccontando con commozione l’uomo che Aquilino è stato; un omaggio alla memoria, di chi come Principato lo ha conosciuto, il ricordo di ciò che era, di quello che è, di quello che potrà essere…
Il racconto sarà pubblicato interamente su una rinomata rivista reggina, qui intervallato a tre riprese.
«Cari lettori, carissimi amici stimati, a distanza di qualche giorno dalla sua repentina scomparsa, la quale ha fatto il giro dei social, tocca a me purtroppo, indegno discepolo di un grande letterato che mi prese a balia intellettuale fin da piccolo, darne il giusto omaggio, credo meritamente. E’ questa forse l’occasione più propizia, dopo averne metabolizzato il lutto repentino, a mente fredda e a ricordi sinceri e commossi, farne panegirico laico. Lo faccio nel momento più decoroso, a feste trascorse, utilizzando le vostre pagine, trovando modo di far sgorgare serenamente i pensieri, sì tristi ma meno carichi di dolore.
Santo Aquilino è morto e come disse qualche fossatese “perdiamo il migliore”: assieme a lui se ne va tutta una cultura storica, sociale, intellettuale, vernacolare, poetica, recitativa, letteraria, artistica, non solo dell’Area Grecanica, che da qualche settimana a questa parte è zoppa di memorie, ma in modo particolare se ne va l’intera cultura del popolo fossatese, il suo paese natio che ha amato fino all’ultimo istante e respiro. Nato proprio in quell’entroterra oggi dimenticato, è stato profondo intenditore delle cose morigerate e semplici, che puntavano al bello ma con l’essenzialità, se ne va l’uomo che ha cercato di insegnarmi ad essere elegante senza vanità di sfarzo. Scrittore sopraffino di un italiano estremamente elegante, intrecciato sapientemente col vernacolo più antico, sapeva unire idiomi latini e greci, grande oratore e retore di racconti affabulatori, sapeva porsi all’ascolto con tutti con estrema umanità e umiltà. Estimatore del gran genio di Pasquino Crupi, con cui sapeva mettersi alla pari e molto apprezzato dal preside Catalano prima che la morte cogliesse quest’ultimo anzitempo. Non parleremo più, né imparerò più nulla. Giunse così fulminea la notizia, a me che mi è stato mentore e Anfitrione col solo scopo di sottrarmi al “grezzume” e all’ignoranza per non dire alla modestia e al tedio dei giorni dei miei vent’anni. Se ne è andato in dicembre, dopo il giorno di Santa Lucia, con la morte che è venuto a visitarlo nel sonno, spegnendosi serenamente in antitesi alla sua vita combattuta e affrontata col sorriso. In silenzio e repentinamente, è andato, chiudendo la grande opera della sua vita, partito, come il titolo del suo romanzo migliore “Il tempo era d’inverno”.
L’area del basso ionio perde, dunque, forse uno dei massimi scrittori, pensatori libertari, in grado di prendere le sofferenze dei volti di paese e farne arte, con tutto il loro bagaglio e bavaglio di parole. Sensibile e propenso al dialogo verso gli ultimi, dove l’intelligenza fa da ricchezza e da decoro in mezzo all’italiano storpiato e incisivo. Ebbene sì, ora posso dirlo, ora davvero i fossatesi “hanno morto tutti”, era questa l’espressione usata in un passo del suo romanzo. Nato in una Fossato poverissima popolata e destinata in breve tempo al tramonto, seppe resistere strenuamente e con indomito coraggio alla sofferenza, dei lutti familiari (orfano di madre in tenera età, poi più maturo aveva perso la sorella più grande insegnante a causa di una neoplasia al seno), ai traumi delle rampogne contadine fin da piccolo e alle vicissitudini di un modus vivendi arcaico e patriarcale fino al midollo, alle tristi condizioni della propria terra e agli strappi dolorosi dell’emigrazione in terra piemontese. Intellettuale ed elegante nel porsi, affabulatore e narratore meraviglioso, sapeva raccontare le storie vere del passato lasciando il taglio dell’amara riflessione del sociale, lasciando poi ad annose riflessioni delle condizioni aspromontane che gli occhi potevano osservare da vicino. Di cultura prima marxista, se ne distaccò subito non condividendo la posizione di supremazia del politburo del PCI, approdando al maoismo intorno ai primi degli anni 60, più maturo si era attestato su posizioni filosofiche libertarie, amando Malatesta e rivalutando, non senza grande travaglio e studio, la figura dimenticata del palizzese Bruno Misefari, che egli considerava secondo in analisi solo al primo. Capace di grandi analisi scientifiche dal punto di vista della micro e macro economia, con l’occhio sempre puntato alla realtà calabrese e aspromontana, si era voluto soffermare sulle problematiche e dinamiche che attanagliavano i paesi interni ormai agonizzanti e spopolati, afflitti dalle logiche della “modernizzazione senza modernità” e tritati dalla macina dei rapporti sociali, violenti a volte in ogni contesto dell’esistere. Capace di individuare in questi rapporti sociali il vero e annoso problema, era giunto all’ipotesi che le condizioni politiche locali, alcuni dai risvolti drammatici, fossero l’inevitabile, consequenziale e naturale surrogato delle prime. Ebbe merito di essere acuto e attento osservatore, scopritore dei talenti di ingegno e arguzia che nascono dai bassifondi dei paesi, estimatore dei volenterosi che in difficoltà studiavano per emanciparsi proprio da quei rapporti violenti e tristi (un po’ come il sottoscritto).
Per molti anni è stato il mio mentore personale, la cui umana presenza intellettuale mi ha accompagnato anche in momenti tristi e dolorosi della mia esistenza, dove egli trovava occasione di darmi insegnamento non trascurando mai di citare qualche brano di romanzo o passo filosofico. Mi vide crescere nello stesso suo paese e si era rivisto nella mia gioventù. Dalle pagine dei social, visitati per account interposti, ho potuto apprendere il dolore del mondo intellettuale reggino, quello degli amici e quello del suo paese, che ridesto e sconvolto si era accorto tardivo dell’immenso valore intellettuale ed umano di cui è stato portatore. Dotato di vastissima cultura e di immensa intuizione, era intriso di cultura popolare, classica e di quella accademica più alta ma mai lo sentimmo atteggiarsi a professore saputo, non era accademico, non gli piaceva, (in una presentazione di un libro di poesia di un paesano nostro scomparso, togliemmo perfino il tavolo “funge da barriera tra noi e loro” disse, “noi non abbiamo bisogno di barriere, le abbattiamo, noi non abbiamo bisogno della ‘cascia’ per atteggiarci, non abbiamo niente di più e niente di meno dagli altri”), con il suo italiano elegante e incisivo sedeva invece con noi sui muretti del paese, aduso all’amichevole conversazione edificante, a volte vestito in elegante posa contadina con un roskoff appeso a indicare l’ora. Interminabili conversazioni sulla musica e l’educazione all’ascolto dei classici, il buon vino, il buon cibo, la cucina come atto d’amore, l’ospitalità e il caminetto accesso, queste erano le nostre cattedre. Era in grado di far capire Dante semplicemente recitandone il passo, alternando la tonalità della voce e interpretandone i personaggi, come mai nessuno ci aveva insegnato a scuola, espertissimo di filosofia e greco antico, sapeva suscitare momenti di grande ironia e ilarità sapida vicino ad argomenti di magno tenore con accanto a sé menti ex catedra universitarie, al contempo rimaneva semplice e umile con la gente umile e semplice, quella gente fatta di contadini, studenti squattrinati, poveri, emarginati, con cui sapeva dialogare, sentirne gli sfoghi della vita, saggiare le interpretazioni e darne stimolo alla vita. Fu dunque per me maestro di ascolto, dialogo e poi di tenero insegnamento morale. Mi lascia e ci lascia una eredità sotto questo profilo pesante e non saprò mai se avrò le spalle adatte per arrivare a ciò che lui era riuscito a fare, ovvero scendere in strada, osservare, pungolare e aprir la mente a quanti sono ciò che noi fummo…» .