Il vizio incarnato del gioco a compare Masi lo stava portando alla rovina. Ma non il gioco delle carte, dentro l’osteria, a passare la serata dopo aver passato la giornata a buttare sangue per buscarsi la pagnotta. Un gioco in cui si vince o si perde vino, non soldi, e dove il peggio che può capitare è una rissa tra ubriachi durante il patruni e sutta[1]. No, non quello! Il gioco che lo stava portando alla rovina era quello del videopoker. Si bruciasse lui e chi lo aveva inventato…

Il bello è che, prima, lui il poker manco sapeva cosa fosse e non aveva mai visto le carte francesi. Scopa, briscola e tresette e carte napoletane! Poi, un giorno, al bar che frequentava arrivò la novità di quella diavoleria e lui, attratto dalle luci, dai rumori e dal tintinnio delle monete di qualche rara vincita, chiese al barista come funzionava e questi fu ben pronto a spiegarglielo.

E fu la sua maledizione!

È vero che si rese ben presto conto che, anche se ogni tanto arrangiava qualche vincita, alla fine a perdere era sempre lui, mai quella sanguisuga di macchina. Pensava, però, che, dopo tutto, la perdita di quei pochi spiccioli se la poteva permettere.

E si sbagliava! Perché come la cazzetta si faci puntu a puntu[2], così, spicciolo dopo spicciolo, se ne andavano somme sempre più consistenti. Iniziarono i bisticci con la moglie, i rimbrotti dei parenti, i buoni proponimenti mantenuti solo per qualche giorno e, infine, i debiti e la vergogna dei familiari.

Tentarono di convincerlo a smettere il maresciallo, il sindaco, il suo medico, qualche suo amico. Tutti senza risultato. Il suocero, invece, lo prese con le cattive e minacciò di spezzargli tutte e due le gambe.

  • E io vado a giocare sulla sedia a rotelle! – fu la risposta.

Il figlio grande, che era chierichetto, ebbe l’idea di parlarne al parroco.

E così questi, una mattina, entrò inaspettatamente nel bar fra l’incredulità dei presenti. Vide Masi al videopoker e finse di stupirsi.

  • Buon giorno, signor Masi. Come mai voi a quest’ora qui al bar? Come mai un onesto giovane invece di essere al lavoro a buscare il pane per la sua famiglia butta il tempo e i soldi dietro ad un gioco che stimola l’avidità per il denaro. Ed il denaro, voi lo sapete, e lo sterco del demonio…

E così continuando gli venne fuori una predica che forse mai dal pulpito gli era uscita così bella. E intanto il barista, dietro il bancone, faceva smorfie di disappunto. Quando il prete finì, Masi aveva le lacrime agli occhi.

  • Grazie, grazie! Mi avete aperto gli occhi, mi avete mostrato la strada che avevo perso. Cieco che ero! Non metterò più piede qua dentro! – e, così dicendo, imboccò l’uscio senza neanche salutare.

E non mise più piede là dentro… fino alle quattro, quando il bar riaprì.

Infatti, il pomeriggio, fora gabbu, giàalle tre e mezza era dietro la saracinesca ad aspettare l’orario d’apertura.

  • Lu sceccu chi mangia ficari caccia lu viziu quandu mori[3]! – commentò qualcuno.

La moglie, dopo aver pure minacciato inutilmente di lasciarlo, pensò di giocarsi la carta della disperazione. Salì a Bova dallo zz’u Turi, un suo vecchio zio, persona saggia e misurata, per chiedergli di spendere qualche buona parola e di raddrizzare il legno storto, come qualche altra volta aveva fatto in famiglia. Non gliene aveva parlato prima un po’ perché si vergognava di raccontare le debolezze del marito e un po’ perché lo zio non era dolce di sale e se a Masi sfuggiva qualche parola più di un’altra poteva scapparci pure qualche coltellata.

  • Hai ragione, figlia. Le conosco anch’io quelle macchinette della malanova perché lo Stato, santudià, le cose buone non ce le fa arrivare quassù a Bova ma queste vergogne sì! E per che cosa poi? Per buscare quei quattro soldi che poi sperpera a scempiaggini! Le conosco e qualche lira dentro ce l’ho buttata anche io per curiosità. Un poco di divertimento c’è ma sono una caja, una piaga profonda come quelle sul dorso dell’asino e non c’è medicina. Comunque, va’ tranquilla che qualche pomeriggio di questi scendo io!

Scese il pomeriggio seguente. Andò prima dall’orologiaio a lasciare una sveglia da riparare, così faceva un viaggio e due servizi, e poi si recò al bar.

Quando vide entrare lo zio, Masi trasalì. Pensò:

  • Certo è venuto qua per me. Ora chi sa che predicozzo mi toccherà ascoltare.

Dannazione ai parenti che, dopo che si erano stancati di farlo loro, ora mandavano pure lo zio a rompergli le devozioni. Fece però finta di niente. Gli si avvicinò, si tolse la berretta, l’abbracciò e lo baciò e chiese:

  • Come va, zio? Come mai da queste parti?
  • Niente… sono sceso alle marine per sbrigare alcune faccende e ora, in attesa dell’autobus per Bova, son venuto al bar a bermi una birra.
  • A chi volete raccontarla? – avrebbe voluto dirgli. Ma invece gli disse – La birra ve la offro io però non vi faccio compagnia ché non bevo fuori orario.
  • Fai come vuoi ma certo non si muore per una birra o un bicchiere di vino. E poi, l’uomo qualche vizio deve pure averlo sennò che si campa a fare?  

Masi restò disorientato. Lo zio lo stava spiazzando. Che aveva in mente? Allora pensò di sollecitarlo lui così si levava il pensiero

  • Che mi raccontate di bello?

Ma quello:

  • Niente! E che vuoi che ti racconti? Solita vita, nessuna novità.

Poi lo zz’u Turi prese la sua birra e si andò a sedere al tavolo vicino a quello dell’avvocato Benelli che era lì a giocare a dama con un suo amico di Livorno. Da lì, lo zio, ogni tanto alzava lo sguardo ed osservava il nipote che aveva ripreso a giocare. Poi, ad un tratto, si alzò di botto.

  • Ecco, ci siamo! – pensò Masi – Si è ripassato ben bene il discorsetto ed ora viene a tirarmi le orecchie.

Lo zio invece si avvicinò al bancone, chiese un’altra birra e se ne ritornò al suo tavolo e riprese il comportamento di prima.

Masi non ci capiva niente.

A un certo punto, come parlando fra sé e sé, ma voce alta, lo zio disse:

  • È da un po’ che guardo quello scatolone rumoroso e illuminato e mi pari lu cupigghjuni di li lapi!
  • Cosa sta dicendo? – chiese l’amico dell’avvocato Benelli.

Questi provò a spiegare:

  •  In dialetto cupigghjuni indica il nido di vespe, api, calabroni e simili. Nel caso delle api, poi, indica tanto l’arnia che l’alveare, perciò, vista la forma a cassetta del videopoker, credo che intenda dire che gli sembra l’arnia delle api.

E infatti questo intendeva.

  • Sì – disse lo zz’u Turi – mi ricorda lu cupigghjuni di li lapi. Pare uno di quelli che, qua sopra, dietro le vigne, ha Massaru Carru: più o meno ha la stessa forma ed ha più o meno la stessa fessura. In quella entrano le api e depositano il miele; a questa si avvicinano le dita dell’uomo e depositano le monete. Là poi arriva Massaru Carru che la smela, vale a dire apre l’arnia e raccoglie il miele che poi vende e incassa i denari; qua arriva il padrone di quella diavoleria che la apre e si prende i soldi. Ed il padrone, a differenza di Massaru Carru, non fa nessuna fatica, i soldi li prende immediatamente e non rischia nemmeno di essere punto. Chiamalu fissa…!

E riprese a sorseggiare la sua birra senza neanche più guardare Masi che giocava. Quando terminò di bere, salutò tutti, abbracciò e baciò il nipote e si avviò a prendere la corriera per Bova.

Uscito lo zio, il nipote riprese immediatamente a giocare ed i soldi che aveva in tasca se li giocò fino all’ultima lira. Se li giocò fino all’ultima lira perché era l’ultima volta che giocava. Il discorso dello zio lo aveva colpito e, questa volta, il proposito di smettere lo avrebbe mantenuto davvero.

Ora, la sera, quando scendeva in paese, non faceva più la solita strada ma faceva il giro largo e passava dal podere di Massaru Carru e se ne stava dieci minuti a guardare li cupigghjuni di li lapi, a rimpiangere i soldi che aveva buttato, a pensare quanto fesso era stato e a mandare benedizioni allo zio Turi.

Francesco Borrello


[1] “Padrone e sotto”, “Passatella”.

[2] La calza si fa punto dopo punto.

[3] L’asino che mangia le piante di fico si toglie il vizio quando muore!