“Salve, o vergine Lucia, / ch’appo Iddio per noi puoi tanto, / tutti all’ombra del tuo manto/ ripariam con viva fe’. / Dal Signor impetra, o pia, / al pregar nostro mercè…”.
Non finivano mai le novelle di Santa Lucia: nove sestine con l’ultimo verso che andava ripetuto tre volte[1].
«Chi ha scritto questi versetti non aveva vigna!», ironizzava l’arciprete Dieni, che la vigna ce l’aveva e tempo da perdere no.
E alla vigna dedicava una cura costante, scrupolosa, puntuale, seconda soltanto a quella delle anime. Anche con gli operari era scrupoloso e, soprattutto, puntuale: nei pagamenti, nel portare la spisa, nel passari lu vinu. Addirittura questa sua puntualità nel distribuire il vino era proverbiale.
Raccontava mastro Filippo Borrello (padre del prof. Luigi) che una volta che stava eseguendo dei lavori a Staiti, a casa dell’arciprete Muscari (gli artigiani di Bova erano molto apprezzati e spesso venivano chiamati a lavorare nei paesi vicini) quando, a un certo orario, si rese conto che ormai Don Muscari si era dimenticato di portare il vino, gli rinfrescò la memoria così:
- Che ore sono, arciprete?
- Le due!
- A chist’ura ddha di l’arcipreviti Dieni ndi passavanu lu vinu!
Amava scherzare, quand’era in campagna con gli operai, Don Giovannino Dieni. Una volta che aviva l’omeni che gli potavano la vigna, durante la pausa per il vino, mostrò loro tre pezzetti di tralcio e disse:
- Se è vero che i bravi potatori sanno riconoscere la vite dal tralcio tagliato, ditemi di che varietà son questi.
- ’Nsolia, nigreddhu, minni di vacca! – sentenziò compare Ciccantoni che era il più esperto.
- ’Nsolia, nigreddhu, minni di vacca! – ripeterono appresso a lui gli altri.
- Io non so di che varietà sono – rispose l’arciprete – ma: o è ’nsolia, o nigreddhu, o minni di vacca, perché è un unico tralcio tagliato in tre pezzetti.
Gli operai risero ma ci rimasero male.
- Non ve la prendete: ho solo voluto scherzare. – si scusò l’arciprete – Ora vi porto un’altra bottiglia di vino, ché ho toccato una botte nuova, e così mi dite pure cosa ne pensate.
Assaggiarono il vino e ognuno disse la sua: “È cchiù lentu”, “Faci di lignu”, “Si spunta prestu”, “Avi pocu ritornu”.
- E torna… – rise Don Giovannino – ci siete cascati di nuovo: è lo stesso vino che avete bevuto prima!
- Vabbè – concluse – ora parliamo di cose serie. La saghimi[2] lasciata di notte fuori dalla finestra, quagghja o squagghja[3]?
- Quagghja! – risposero in coro gli operai, contenti di poter finalmente azzeccare una risposta esatta.
- Mah… sarà come dite voi… – tentennò l’arciprete – ma a mia mi squagghjau cu tuttu lu salaturi[4]!
[1] I versetti li aveva procurati Don Leo Foti, padre del canonico, ed erano stati musicati dal giovane Gesualdo Borrello.
[2] Lo strutto.
[3] Si coagula o squaglia?
[4] Ma a me è squagliata (sparita) assieme al suo recipiente. Lu salaturi è unvaso cilindrico di ceramica per la conservazione degli alimenti.
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