25 Novembre: giornata internazionale contro la violenza sulle donne. Parliamo di donne.
Di donne violentate e uccise in tutto il mondo. Alziamo la voce, intrecciamo un grido. Ma il nostro grido somiglia ad un eco che ritorna ogni anno identico a se stesso: le donne continuano ad essere violentate e uccise. Cosa non fa funzionare il nostro grido? Perché esso non riesce a frantumare i vetri del tempo e vestirsi di nuove parole, di nuovi gesti, di nuovi sguardi? Questo ci chiediamo. Ogni anno. Ma anche le nostre risposte hanno colori che si ripetono: mancato raggiungimento della parità sostanziale dei diritti tra uomini e donne, prevaricazione fisica, sociale e sentimentale dell’uomo sulla donna. Secoli di sedimentazione culturale: nel linguaggio, nelle tradizioni, nelle religioni. Anche Dio è uomo nelle nostre rappresentazioni antropomorfiche.
Ed è indubbio che queste argomentazioni abbiano un fondamento oggettivo e solido.
Ma forse dovremmo cambiare la direzione del nostro sguardo, la natura delle nostre argomentazioni: dovremmo iniziare a parlare soprattutto degli uomini. Sgretolare il loro ruolo cristallizzato di forza, razionalità e guida delle cose del mondo e della vita. Ricordare che la forza vitale della vita non è la nostra lineare e consequenziale razionalità, (che ci accomuna e ci rende tutti uguali) bensì il nostro universo irrazionale, pulsionale, emozionale. Ed è la qualità di questo universo che ci identifica, che ci differenzia. Ed il suo dominio non appartiene agli uomini, ma alle donne. Sono loro che abitano il territorio di confine e governano mirabilmente l’osmosi tra mondo razionale e mondo irrazionale. A differenza degli uomini, infatti, saldi e fissati nella dimensione logico-razionale, le donne smarginano nella “follia” e dispongono di strumenti intuitivi e di precomprensione dell’irrazionalità, della “follia”, che ci abita. Dentro questo territorio gli uomini, invece, sono bambini, fanciulli. Sono soggetti fragili, incapaci di governare le passioni e gli abbandoni. Dentro questo territorio gli uomini, certi uomini, barcollano, passeggiano come ubriachi. E l’AMORE appartiene a questo territorio.
E non è un caso che Socrate, chiamato a parlare d’Amore nel Simposio di Platone, cosa rara nel mondo greco, abbia scelto una donna, Diotima di Mantinea, come sua maestra nelle cose d’amore.
E non è nemmeno un caso che Socrate, prima di giungere al banchetto organizzato da Agatone per parlare d’Amore, sia stato colpito da atopia. E la sua “Atopia” non è l’epilessia, come alcuni psichiatri avevano nel tempo ipotizzato (l’epilessia era stata già scoperta e menzionata da Ippocrate) ma una necessità di estraniamento, di distacco, di dislocamento dal luogo della ragione per poter parlare di TA EROTIKA, delle cose d’Amore, di cui Socrate dichiara di averne episteme (cioè conoscenza certa che sta in piedi da sola).
E, a differenza di quanto fin lì sostenuto, egli afferma che AMORE non è figlio di AFRODITE (Dea della sensualità) e ARES ( Dio della guerra)- visione ripresa da Freud per individuare due pulsioni fondamentali del nostro inconscio: sessualità ed aggressività- ma da PENIA ( Povertà) e dal semidio POROS (che in greco significa “via di acquisto”). Egli racconta che PENIA e POROS impegnati a raccogliere le briciole ed i resti del vino di un banchetto, organizzato da Afrodite, si ubriacano e fanno l’amore. Da quell’unione nasce AMORE. Esso ha tutte le caratteristiche della madre: è povero, vestito di stracci e dorme appoggiando il capo sui sassi. Con questa immagine Socrate ci dice che la veste dell’AMORE non è il possesso, ma la povertà, la mancanza, il desiderio, il rispetto. Egli ci ricorda che l’AMORE è strumento di mediazione tra la nostra parte razionale e quella irrazionale: noi amiamo l’altro/altra perché egli/ella ha intercettato la nostra parte irrazionale, il sottofondo del nostro IO, la dimensione profonda e nascosta della nostra psiche e ce la rappresenta consentendoci di conoscerla e determinando una nostra “trasformazione”.
Dunque, l’Amore non appartiene alla dimensione razionale: esso, nel mito, si colloca tra il divino e l’umano e nello schema psicologico individuale tra l’IO (ragione) ed il sottofondo (l’inconscio) che ci costituisce; si colloca cioè tra irrazionalità e razionalità. Dice Platone è metaxù, intermediario tra il mondo degli Dei e quello degli uomini, ovvero tra la nostra “follia” e la nostra ragione. Il suo compito è quello di tradurre il linguaggio umano (di ragione) in modo comprensibile a quello divino (di follia). E’ il mediatore tra il nostro IO (razionalità) e il mondo inconscio (irrazionalità, follia).
E’ dunque l’universo meglio governato dalle donne. E questo agli uomini bisogna ricordarlo.
Ora, pur non volendo accettare dogmaticamente la visione che Platone ci presenta dell’AMORE, rimane incontrovertibile il fatto che l’AMORE non può essere male o violenza, non può essere
esercizio di potere psicologico sull’atra, per trarre soddisfazione sadica dalla sua sofferenza , per rafforzare il proprio convincimento di tenere l’altra sempre legata a sé ed al proprio bisogno di essere adulati ed amati, ma scoperta, trasformazione, vita.
Esso, tradotto in linguaggio poetico, è, per me, lo spazio divorato dalla luce pura dell’alba. Ha uno sguardo sereno quieto, come una pozza profonda di mezzanotte; è ricco di vita segreta e di mistero, illuminato dall’interno dal calore di un immenso fuoco addomesticato. Ha tanti colori l’AMORE e non si rarefà quando si allarga. E’ ordine, è sicurezza, è armonia, è rispetto, è dono l’AMORE.
E questo le donne lo sanno. Gli uomini, certi uomini, devono ancora impararlo.